Avete un sogno nel cassetto? Quello che prima o poi nella vostra vita volete realizzare?

Cacciare la pecora di Marco Polo sulle cime innevate del Tajikistan era sicuramente il sogno venatorio nel cassetto di Luca e nel 2012 è riuscito a realizzarlo.

Leggi il racconto della sua incredibile avventura.

“La prima luce del sole danza leggera sulle cime innevate, mentre un vento tagliente ferisce il volto arrossato dal gelo. Accoccolati dietro una grande pietra nera, lasciamo scorrere lo sguardo sulla valle petrosa sottostante, alla ricerca di un segno che indichi la presenza del branco di pecore avvistato la sera precedente all’imbrunire: gli animali ci erano apparsi come dodici fiori bianchi sul fianco nero della montagna, e avevano, poi, preso forme precise nel “lungo”, rivelando sesso – tutti maschi- e grandezza del trofeo. Due erano ottimi, tra le 55 e le 60 inches.

“Torniamo domattina presto, adesso è troppo tardi! Ci vogliono almeno quattro ore di marcia”, aveva detto Subun, il capo delle guide. E così, pieni di speranza, via verso il campo base ridiscendendo ai quattromila, divenuti la nostra altitudine abituale.

Il viaggio per raggiungere il Tajikistan è stato lungo e faticoso: a parte gli aerei – via Mosca e Bishkek, in Kirghizistan – ci hanno fiaccato le 14 ore di auto da Osh, cittadina kirghisa di frontiera, fino al cuore del Pamir, vicino al lago Karakul a pochi metri dal confine cinese. Solo un paio di fermate per i nostri bisogni e una zuppa ristoratrice verso le undici di sera nel villaggio affacciato sul lago: giunti alle tre di mattina al campo base, abbiamo avuto giusto il tempo di elargire un paio di sorrisi alle guide per poi “svenire” sulle brande senza materasso che sarebbero state il nostro scomodo giaciglio per i giorni a venire.

Non c’è bisogno di sveglia, sono i venti sotto zero dell’esterno che si insinuano nelle camerette da sotto la porta, dal pavimento e dalle fessure delle finestre ad accarezzarci le membra intorpidite e a farci scattare in piedi alla ricerca del the nero e caldo -il ciorni chai-, unico conforto alla sete e al gelo del Pamir.

Sono qui con gli amici Gianni e suo figlio Gianluca, con Carlo e con Chiara, e la loro compagnia aiuta a stemperare le difficoltà dovute all’altitudine: il leggero mal di testa, la tachicardia e la costante dispnea.

Le guide ci si rivolgono in un inglese abbastanza approssimativo, probabilmente imparato dai clienti americani (quelli che, a detta loro, spesso non se la sentono di salire in quota e fanno sparare gli animali a loro… si accontentano della fotografia), ma sufficiente per capire strategie e suggerimenti. Decidiamo di partire, ognuno con il proprio accompagnatore verso l’area che gli è stata destinata: siamo pronti e le carabine risultano tarate nonostante il viaggio impegnativo.

Il mio equipaggio parte a perlustrare il confine basso con la Cina lungo una recinzione che si snoda per chilometri ma con varchi che possiamo attraversare a seconda della bisogna. Perlustriamo le alture sulle quali durante i giorni precedenti Subun dice di aver visto un notevole trofeo. Rinveniamo, invece, la carcassa di una Marco Polo divorata dai lupi, e ciò fa storcere il naso alle nostre guide: se i lupi hanno attaccato, certamente hanno spinto lontano le pecore che stavamo cercando. Ci spingiamo per diverse centinaia di metri oltre il “fence” in suolo cinese e ci fermiamo a contemplare delle dune di sabbia da Sahara assai bizzarre a questa altitudine, mentre più lontano spiccano le cime della regione del Mustang che superano gli ottomila. Tutto immerso nel blu infinito del cielo d’Asia, terso e profondo.

Purtroppo non ha ancora nevicato e le pecore di Marco Polo si mantengono ad altezze piuttosto elevate. Saremo noi, quindi, a dover salire e non loro, a scendere, come avevamo sperato.

Ci spostiamo in un’altra area e sulle cime imbiancate che ci sovrastano scorgiamo, nitide, le tracce dei branchi che si spostano in fila indiana sui fianchi delle montagne: tanti piccoli segni sulla neve a descrivere linee più o meno rette.

Improvvisamente una delle guide ci indica un grosso lupo che, solitario, sta seguendo le piste. È a più di ottocento metri, ma nel binocolo riesco a godermi lo spettacolo e a spostarmi, virtualmente con lui, alla ricerca del branco di “Oves Ammon”.

I nostri accompagnatori ci lasciano a bere un the caldo sul fuoristrada mentre si inerpicano, apparentemente senza sforzo, sul fianco della montagna dietro il cui apice sono sparite le pecore prima e il lupo ora. Dopo una mezzora ritornano: il branco è composto solo da femmine e giovani “ram”.

Si rientra alla base percorrendo la lunga strada già sperimentata al mattino, tra sobbalzi e stop improvvisi a evitare buche e pietre. Rashid inchioda bruscamente e indica qualcosa a Sunbun sui monti alla nostra sinistra. Tutti loro scendono senza dare una risposta ai nostri sguardi interrogativi carichi di ansia e speranza. Scendiamo anche noi e cominciamo a sbinocolare. Sunbun dice : “Maybe sheeps” mentre preleva dalla macchina il lungo.

Se possibile, il mio cuore aumenta ancora i battiti e un leggero capogiro, più da emozione che da altitudine, mi spinge ad accoccolarmi a terra mentre impugno il binocolo e lo punto nella direzione in cui tutti guardano. Dodici puntini bianchi frammentano il nero pece del fianco della montagna a più di un chilometro da noi.

Sunbun si gira verso di me sorridendo e invitandomi a guardare nel lungo: “The sheeps are overthere”. Eccole! Il sogno a lungo cullato sta divenendo realtà e, non senza commozione, faccio scorrere lo sguardo su quei fiori bianchi la cui corolla porta, anziché petali vellutati, le volute di corna potenti. Quanto sono belle!

Abbiamo avvistato diversi branchi di pecore e l’indomani sceglieremo di avvicinare il più accessibile.

Il bravo Sunbun ha fissato la partenza molto presto perché avremo quasi un chilometro di distanza da coprire per raggiungere gli animali. Giungeremo alle falde del monte “nero” in vettura e poi gli altri settecento metri ce li “arrampicheremo” passo dopo passo sul filo dei 4600 metri. E non è come dirlo!

Alle cinque siamo tutti in piedi e ognuno parte per la propria destinazione. Saluti, abbracci e “in bocca al lupo” si sprecano.

Dopo qualche chilometro sul sentiero, cominciano le poche centinaia di metri di sterrato che, però, durano un’eternità fra buche, fossi secchi e pietre che ci costringono a tornare indietro e a cambiare direzione.

Giunti alla base del monte da scalare scendiamo. Guardo con sgomento la cima – sì, è proprio là che dobbiamo andare, dove sono quei due pietroni -. Sorridiamo e partiamo senza indugio: è proprio per andare lassù che abbiamo affrontato i novemila chilometri del viaggio. “Slowly, slowly!” Ci dicono le guide, come se ce ne fosse bisogno, e loro partono, invece, a velocità sostenuta senza zigzagare come siamo abituati noi sulle cime di casa, ma dritti come fusi verso la vetta.

Cerchiamo di adeguarci, ma l’aria rarefatta non perdona, e a 4600 il mio cuore non rallenta il battito e corre all’impazzata anche quando mi siedo a riposare. Ogni venti metri è d’obbligo fermarsi. Ma non demordiamo e, passo dopo passo arriviamo in cima – dopo tre ore e mezza – incitati dai sorrisi delle guide.

Eccoci alla grande pietra nera. Ci sediamo a prendere fiato in attesa che il sole ci riscaldi, tra le folate di vento gelido taglienti come rasoi. Si comincia a sbinocolare, ma le pecore sembrano sparite. Il grande vallone pietroso sotto di noi è vuoto, così come il fianco nero della montagna su cui ieri biancheggiavano le Marco Polo.

Sunbun scorge a più di ottocento metri da noi un branco: “Ci sono due buoni ram e un gruppo di femmine con giovani dell’anno”, ci dice. Evidentemente i dodici maschi si sono uniti a questi.

Li vediamo nel binocolo e restiamo in attesa di concordare una giusta strategia di avvicinamento. Rimaniamo immobili ad assorbire la bellezza di quei luoghi e, nei contrasti tra il blu del cielo, il bianco della neve e il nero e sabbia delle rocce, facciamo nostro il dono delle alte quote: “amata solitudine … isola benedetta”.

Sunbun ci scuote dal torpore frutto dell’accavallarsi di queste emozioni e decide di procedere verso il branco scorto in precedenza. Avanziamo in silenzio saltando da una pietra all’altra per evitare di camminare sulla neve che scricchiola sotto le nostre suole.

Fatte alcune centinaia di metri in costa, da un avvallamento sotto di noi, a circa trecento metri, parte un gruppo di maschi di Marco Polo. Sono dodici … sono proprio le nostre! Sunbun si scusa per non aver capito subito che potevano trovarsi proprio lì sotto, ma non lo sto nemmeno a sentire. Mi butto a terra, abbasso il bipiede e appoggio sullo zaino il calcio della Mag in 300 Wsm. Regolo la torretta balistica e aspetto che il gruppo si fermi dopo la prima corsa. “The first” mi dice Subun, e seguo con la croce il primo animale del branco, ruotando il busto nella stessa direzione. Gli animali si fermano e guardano verso di noi, la croce mi sembra posizionata sulla spalla correttamente, inserisco lo sneller e faccio partire il colpo. Le pecore ripartono a tutta velocità, mi accorgo infatti, vedendo lo sbuffo del proiettile sulle rocce, di aver tirato leggermente alto.

Continuo a ruotare il busto – porto ancora i segni del “grattamento” da roccia sul ventre – seguendo gli animali e, dopo aver ricamerato, attendo che si fermino di nuovo nel susseguirsi di corse e fermate tipico di questa specie. “Always the first”, continua Sunbun e al successivo stop del branco pongo la croce sulla spalla del primo animale. Il colpo parte e, mentre il gruppo riprende a salire verso l’alto diretto al sommo della cima di fronte a noi, il mio animale indugia e si porta verso il basso compiendo un ampio giro per riprendere la direzione di tutte le altre pecore. Una pacca sulla spalla di una delle guide e il sorriso di Sunbun mi fanno capire che il colpo è andato a segno. Temo, però, di avere leggermente strappato, colpendo un po’ arretrato. La mia pecora segue il gruppo rimanendo distanziata e arrancando a fatica su per il ripido pendio, e anch’essa scompare dietro il crinale.

Ci portiamo immediatamente – si fa per dire – dove l’ovis dovrebbe essere stato raggiunto dal colpo e inequivocabili tracce di sangue sulle pietre denunciano una ferita che non dovrebbe lasciare scampo.

Il respiro ci si spezza in gola: siamo vicinissimi ai 5000 metri, e seguire le pecore vorrebbe dire innalzarci di altri quattro o cinquecento metri. Non credo di farcela, il cuore non ha smesso di martellarmi in petto, e ora, sono sicuro che non si tratta solo di emozione. Ci fermiamo per evitare ulteriori problemi.

Consegno la carabina – just in case – a Subun che parte con Rashid su per il ripidissimo pendio.

Noi cominciamo la discesa verso l’auto e verso il campo, interrogandoci continuamente sull’opportunità della nostra scelta. Non era il caso di rischiare, il mal di altitudine è sempre in agguato.

La discesa non è molto più semplice della salita ma in un’oretta arriviamo a destinazione.

Al campo troviamo i nostri amici Gianni e Carlo che, incredibile a dirsi, hanno vissuto la stessa identica avventura: animale colpito e sparito dietro il crinale di fronte. Tutti siamo dunque in attesa delle nostre guide.

Il primo a tornare è Sunbun che, raggiante, mi mostra lo straordinario trofeo da 56 inches, trovato morto qualche centinaio di metri al di là del crinale. Il mio sogno, cullato per anni, si è avverato, ho cacciato la pecora di Marco Polo cui ho dedicato studi, letture e una lunga preparazione fisica per molto tempo. Il conseguimento del trofeo giunge a coronamento di un percorso venatorio che attraverso Europa, Africa e Asia mi ha portato fin qui sul Pamir a chiudere un ciclo di avventure iniziato più di vent’anni fa.

È stata un’esperienza dura, faticosa ma straordinaria per la bellezza dei luoghi e perché ha offerto ancora la possibilità di praticare una caccia vera ed estrema.

L’intensità del ricordo mi fa dimenticare le fatiche, i problemi con l’intransigenza dei doganieri tajiki, il rischioso viaggio di ritorno con le sbandate dell’auto sul ghiaccio e sulla neve appena caduta… e i burroni, voragini aperte, pronte a inghiottire (in una delle sbandate ci siamo fermati a meno di trenta centimetri dal vuoto). Ma è la sfida, l’avventura che cerchiamo.

Ripenso all’ultima notte a quattromila, agli istanti concitati prima della partenza per tornare al mondo “civile”. Lasciamo il campo che è ancora buio. Tutto è immobile e silenzioso e rivolgo un ultimo sguardo di commiato ai profili rocciosi che ci circondano, mentre ancora “…dormono le cime dei monti e le vallate intorno, i declivi e i burroni…”